E così, cercavo di vivere tutti quei giorni con serena speranza ma anche con una buona dose di realismo, tanto che il mio motto era diventato il ritornello di quella celebre canzone anni Sessanta… “Bisogna saper perdere, non sempre si può vincere…”

Non voleva dire che mi stavo arrendendo ma che volevo essere tranquilla. Comunque andassero le cose.

Di quei giorni ricordo tutto: quando sembrò che gli ormoni di cui ero imbottita stessero producendo più follicoli del previsto, con conseguenti visite preventive per passare a una FIVET.

Di quel sabato che invece – sorpresa! – di follicolo ne era cresciuto soltanto uno. Lui, il prescelto.

E allora era il momento dello sprint finale. Le ultime mosse prima della nostra prima IUI che, salvo complicazioni, era stata fissata per il lunedì successivo … ché se il follicolo avesse scelto la domenica per trasformarsi in ovulo, sarebbe saltato tutto. Perché di domenica, lì al centro, di IUI non ne fanno.

Le ultime mosse prevedevano un’iniezione e questa volta una vera e propria iniezione, con tanto di ago-normodotato, da eseguire in fascia notturna. Sì, all’una di notte, poiché l’iniezione va fatta 36 ore prima della IUI, che avrebbe avuto luogo alle 13 del lunedì successivo.

Fu un’ostetrica ad aspettarci quel sabato notte per farmi la puntura e fu un momento magico e surreale. Dopo una serata trascorsa a gozzovigliare con gli amici, al posto del bicchiere della staffa avevamo appuntamento per un’iniezione di gonasi… Lorena, era questo il nome dell’ostetrica, fece tutto in modo rapido e indolore e mi salutò affettuosamente: “ciao… e mi raccomando: rimani incinta!”.

E poi ci fu il nostro lunedì. Il lunedì della nostra IUI. Appuntamento alla 10 di mattina per Albert, che doveva portare a termine la sua missione, e poi alle 13 per me. Affrontammo tutto insieme. Forti e sicuri. E quando, al termine della IUI a cui mi sottoposi, mi coprirono e fecero entrare Albert nella stanzetta-ambulatorio, pensai solo che non è vero che per noi coppie diversamente fertili è meno romantico provare a concepire un bambino. Ci può essere tantissimo amore, romanticismo e persino tenerezza anche lì, tra una garza sterile e una provetta.

Passato quel giorno mi sentivo come al termine di un lungo e stranissimo viaggio che mi aveva permesso di conoscere persone meravigliose, di misurare me stessa e le mie forze e anche di sentire, ancora più forte, il mio amore per Albert.

Dopo quel viaggio, dunque, arrivarono i giorni dell’attesa. I famigerati 14 giorni.

“Bisogna saper perdere, non sempre si può vincere” – canticchiavo e continuai a canticchiare anche il giorno in cui tornai in ospedale per l’esame delle BetaHCG, il cui esito sarebbe arrivato solo l’indomani.

Erano le 13.04 del giorno successivo quando Barbara, l’infermiera dell’opedale, chiamò sul mio cellulare.

E per la prima volta, in quel lungo cammino, piansi di gioia.

 

Ritratto di Francesca Gastaldi

Posted by Francesca Gastaldi